L’istituzione del Giorno del ricordo ha portato l’opinione pubblica e il mondo della scuola a confrontarsi con le complesse vicende della “frontiera adriatica”: un’area cioè – che coincide grosso modo con il Litorale austriaco o, per Graziadio Isaia Ascoli, Venezia Giulia, cui vanno aggiunte il Fiumano e la Dalmazia – di sovrapposizioni culturali, linguistiche, politiche e al cui interno convivevano diverse comunità nazionali. In sede storiografica, il territorio si propone come un autentico “laboratorio della contemporaneità”, perché al suo interno, nel breve volgere di pochi decenni, si sono concentrati una serie di fenomeni che hanno caratterizzato la storia europea, dagli ultimi decenni dell’Ottocento fino al secondo dopoguerra. Mi riferisco al definirsi di diverse identità nazionali che, una volta maturata una presa di coscienza di sé e sviluppate strutture sociali, politiche, economiche e culturali, finirono per farsi portatori di interessi tra loro confliggenti; il vertiginoso mutare dei confini, determinato dal crollo della monarchia asburgica dopo il dramma della Grande guerra che qui si era presentata in tutte le sue manifestazioni; il rapido e violento affermarsi del “fascismo di confine” e le sue dolorose politiche di snazionalizzazione nei confronti delle comunità slovena e croata dell’area; la Seconda guerra mondiale e l’occupazione nazifascista della Jugoslavia; la comparsa nella regione del nazismo, che qui ripropose le logiche della guerra di sterminio già applicata all’Europa orientale: la risiera di San Sabba ne costituisce un simbolo eloquente; l’avvento di un nuovo sistema totalitario, quello comunista jugoslavo, con le sue mire annessionistiche sulla Venezia Giulia e le violenze da esso commesso, culminate in due momenti particolarmente traumatici: le foibe “istriane” dell’autunno 1943 e le foibe “giuliane” della primavera 1945, accompagnate, queste ultime, da un’ondata di arresti e deportazioni.
Intanto, mentre il destino della Dalmazia e di Fiume sembravano segnati, e il territorio era suddiviso due sfere d’influenza – una ad amministrazione militare angloamericana, l’altra ad amministrazione militare jugoslava –, in particolare a partire dal Trattato di pace di Parigi (10 febbraio 1947) si avviò l’Esodo delle popolazioni giuliane di lingua italiana – la partenza dalla Dalmazia si era già verificato a partire dal 1944 –, frutto delle politiche di snazionalizzazione attutate dal regime titoista che finirono per far sentire gli italiani “stranieri in patria”: venivano infatti colpiti modi di vivere, realtà produttive e tradizioni che semplicemente non potevano più trovar posto in uno Stato che – almeno fino alla rottura con l’URSS – aveva per modello il paese di Stalin. Tra le realtà colpite, vanno ricordate le persecuzioni ai danni del clero italiano, sloveno e croato, con diversi atti di violenza che in taluni casi portarono al martirio di religiosi: basti ricordare i nomi di don Francesco Bonifacio, don Miro Bulešić, don Izidor Zavadil; anche monsignor Močnik, amministratore apostolico della parte jugoslava della diocesi di Gorizia e di Parenzo Pola, e il vescovo di Trieste-Capodistria, monsignor Santin, subirono atti di violenza.
Fenomeno di lunga durata, l’Esodo portò al collasso dell’italianità adriatica: una presenza storica, che risaliva all’epoca della romanizzazione, si riduceva alle presenza di poche migliaia di persone che per svariate ragioni erano rimaste nella nuova realtà statuale. Si trattò dunque di un fenomeno di massa, uno “spostamento forzato” di popolazioni –analogo a quello avvenuto al termine del conflitto in altre regioni europee –, cui parteciparono anche flussi di sloveni e croati che non si riconoscevano nella nuova Jugoslavia comunista.
Non sono, questi, che alcuni dei molti e complessi passaggi che segnarono l’area della frontiera adriatica, della cui memoria la giornata del 10 febbraio intende farsi carico, ammonendoci a un tempo sui costi di guerre e di ideologie totalitarie. Simbolo dello spirito che può e deve sostenerci sono le mani intrecciate dei presidenti italiano, Sergio Mattarella, e sloveno, Borut Pahor, davanti a due luoghi memoriali assurti a simbolo per le comunità italiana e slovena, della regione: la foiba di Basovizza e il monumento ai Fucilati di Basovizza, mute testimonianze della violenza di regimi che hanno lasciato il posto alla democrazia e alla comune patria europea.
Fabio Todero